Libri su Giovanni Papini

2001


Giampiero Mughini

L'invenzione del '900

Capitolo:
Quando il Novecento parlava toscano:
storia di un editore e dei suoi libri
,
pp. 9-39
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Cortina, l'agosto dei 1941. Era la prima volta che in Italia si svolgesse una mostra dedicata ai collezionisti di quadri e alle loro collezioni. L'idea era venuta a un patito delle tele e amico affettuoso di pittori, quel Mario Rimoldi che di Cortina diverrà addirittura sindaco nel secondo dopoguerra, e la cui immane raccolta di artisti del Novecento italiano è entrata nella leggenda del collezionismo di questo secolo. A competere per il premio che sarebbe stato assegnato alla collezione più importante in mostra, c'erano i nomi più grossi del collezionismo italiano, dal futuro antiquario e gallerista d'arte veneziano Carlo Cardazzo alla romana Maria Luisa Astaldi, dallo scrittore ed esperto d'arte Giovanni Comisso al mitico ingegnere metà campano e metà ligure Alberto Della Ragione, quello la cui collezione è stata poi donata alla città di Firenze e oggi ne costituisce un vanto.
E difatti il premio per la collezione più importante non poté non andare alla sua, talmente raffinata nelle scelte e nelle predilezioni di autori e opere, una selezione di capolavori che racconta e scandisce la storia della pittura italiana degli anni Venti e Trenta. Ma alla mostra cortinese c'era anche un premio per il miglior quadro esposto. E quello lo vinse un quadro firmato da Giorgio Morandi, di proprietà dell'editore fiorentino Attilio Vallecchi, il quale aveva allora 61 anni. Vallecchi aveva cominciato a comprar quadri nel 1913, ai tempi in cui si era fatto l'editore e stampatore di "Lacerba", e comprava per dar di che mangiare ad artisti che collaboravano alla rivista con illustrazioni e disegni. E vien voglia di chiedersi se il quadro di Morandi negli anni Trenta fosse stato appeso ai muri di casa sua, a via Guelfa, o non invece a quelli del suo ufficio a viale dei Mille, di cui tanti testimoni sono concordi nel raccontare che traboccavano di opere d'arte tanto da far apparire quell'ufficio come un vero e proprio museo. E chissà se la compera di quel quadro avvenne a Firenze o a Bologna, a casa del ritrosissimo Morandi, magari alla maniera in cui ha raccontato le sue compere il più gran collezionista di Morandi, il musicologo parmense Luigi Magnani. Certo che negli anni Trenta tra Bologna e Firenze doveva essere una sorta di navetta continua, gente che andava avanti e indietro, vociani e futuristi e "strapaesani" e fautori del ritorno all'ordine", Leo Longanesi come Vincenzo Cardarelli, Luciano Anceschi come Carlo Carrà, Mario Missiroli come Adolfo Franci, un toscano al quale si deve il velenoso commento secondo cui la cosa che più lo aveva impressionato di Bologna era «la teoria delle mortadelle e dei cotechini appesi ai ganci infiorati delle pizzicherie di lusso».
Al momento in cui un suo quadro vince il premio cortinese, Vallecchi era nel pieno del suo fulgore editoriale. Da ormai vent'anni l'essere pubblicato da «Vallecchi Editore Firenze" era per uno scrittore l'attestazione di un alto lignaggio. Dal 1919 in poi il catalogo Vallecchi era stato il catalogo per eccellenza degli scrittori italiani che si affacciavano a un loro prestigioso debutto. Solo che la


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Seconda guerra mondiale stava per distruggere un mondo, buttandolo gambe all'aria. Mentre il baricentro culturale e editoriale del Paese si stava spostando verso la Milano della Rizzoli o la Torino della Einaudi, Attilio Vallecchi non sopravvisse al grave bombardamento subito dal suo stabilimento tipografico, alla sconfitta del fascismo in cui pure aveva creduto, all'umiliazione di vedersi accusato di essere stato favorito dal regime. Mori nel 1946, a guerra appena finita, quando aveva soltanto 66 anni. II medico stilò un certificato di morte in cui era scritto che il suo cuore s'era «infranto»: per un attimo da medico s'era mutato in letterato, in un letterato degno del catalogo Vallecchi. Sui muri di Firenze apparve un annuncio funebre in cui era scritto che «l'operaio tipografo» Attilio Vallecchi «aveva compiuto il suo dovere di vivere».
Moriva un tipo di editore come oggi non ne esistono più da tempo, uno che ci andavi a casa a leggergli il libro che avrebbe dovuto pubblicare e lui ti stava ad ascoltare pagina dopo pagina, come ha raccontato lo scrittore fiorentino Nicola Lisi. Scompariva con lui la figura dell'editore paterno, amicale, quello che aveva usmato tutti i rumori e tutti gli odori della tipografia fiorentina di inizio secolo, il mondo del «corpo 8» a dirla con il titolo di un celebre libro di Giorgio Luti sulla cultura fiorentina tra le due guerre. Oppure quel che ne ricorderà Aldo Palazzeschi a un anno dalla morte, che Attilio Vallecchi era un tipo alla maniera dei grandi imprenditori parigini il cui nome correva in tutto il mondo e che ti ricevevano con in testa un berretto da operaio.
Operaio tipografo, da li era partito il suo destino nella Firenze di fine secolo, quando il lavoro industriale era spietato, quando capitava a un tipografo di avere il braccio sfracellato dalla rotativa e di essere poi licenziato perché "inabile" al lavoro. Figlio di una contadina e del magazziniere di una tipografia, nato nell'aprile del 1880, Vallecchi aveva cominciato a lavorare a dodici anni, in una tipografia di via dell'Anguillara, lì a metà strada tra gli Uffizi e Santa Croce, una via di cui racconta che era talmente buia e cupa da sembrare il fondo dell'inferno. Il nostro dodicenne arrivava in tipografia alle sette e lavorava fino a mezzogiorno. Durante la pausa pranzo di un'ora lui tornava a casa a mangiare poco più di un uovo fritto e poi ritornava in tipografia, tre chilometri a piedi fra andata e ritorno. Dal "tócco" continuava a lavorare fino alle sei di sera. La paga? Nulla. Nella Firenze di fine Ottocento un apprendista era già tanto se lo mettevano ad imparare il lavoro. E siccome questa sua condizione di lavorare e di non essere pagato lo sconsolava, la madre consegnava di straforo cinquanta centesimi al proto affinché li desse al figlio dicendogli che valevano come paga giornaliera. Finché quei fatidici cinquanta centesimi non divennero davvero la sua paga. Il mestiere di tipografo, lo stare in piedi davanti al bancone, le mani che accorrono al piombo carattere dopo carattere, la pagina che nasce come una creazione materiale, pesante. Come se fossero


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le parole a pesare, e dunque vadano scelte con cura. Vallecchi lo impara lì, in quegli anni dí durissimo apprendistato, l'abc del mestiere, distinguere un carattere egiziano da un normanno, un elzeviro da un bodoniano. E come la pagina vada costruita tipograficamente in modo da lasciare ampi margini bianchi, a renderla ariosa; quel gusto della tipografia classica di origine francese che era stato il gusto di editori come Sommaruga o i fratelli Treves.
Ben presto si dimostrò talmente bravo da poter migliorare la sua paga. Gli era chiesto di riempire giornalmente un certo numero di cassette con il piombo delle pagine da scomporre? Ebbene lui ne riempiva il doppio, guadagnandosi così una sorta di straordinario. Passo dopo passo, divenne direttore di tipografia. Appena l'occasione gli si presentò la colse al volo. Morto suicida il proprietario della tipografia in cui lavorava, lui si assume la responsabilità di portarla avanti, a un tempo in cui è questione di vita o di morte incassare una certa somma un'ora prima o un'ora dopo. Da dipendente divenne padroncino, la prima tipografia di cui fosse gestore e responsabile, la tipografia Pini e Paoletti di via Pietrapiana, ed era una piccola tipografia di cui Giuseppe Prezzolini scriverà più tardi che «c'erano forse cinque operai che potevano fare sì e no qualche dozzina di biglietti da visita». Quei «cinque operai» Vallecchi seppe utilizzarli, sì da intraprendere e ingrandirsi. Nel 1904 spostò la tipografia al numero 25 di via Nazionale, e sarà il primo degli indirizzi che faranno la storia della sua attività editoriale. È lì che si stamperanno, nel 1913, i primi numeri di "Lacerba". Finché, nel 1914, fuse la sua tipografia con quella dove si stampava il quotidiano fiorentino "La Nazione" a dar vita al grande stabilimento di via Ricasoli. Dove rimarrà fino al 1927, quando inaugurerà l'ultima sua creatura imprenditoriale, l'immenso apparato tipografico di viale dei Mille con centinaia di dipendenti. È quello il momento in cui il suo più valido collaboratore è divenuto il figlio Enrico, che era nato nel 1902 e che morrà nel 1990. Alla morte di Attilio è lui che ne eredita il lavoro e il ruolo.
Gli ultimi mesi del 1912, al momento di dar vita alla rivista da loro così lungamente covata, "Lacerba", Giovanni Papini e Ardengo Soffici cercavano una tipografia che costasse il meno possibile. Se i costi tipografici fossero stati troppo alti, la rivista ne sarebbe stata annientata. Quel che era accaduto alla "Poesia" milanese diretta dal pur ricco Filippo Tommaso Marinetti, una rivista che sfoggiava una carta costosissima. La tipografia di Vallecchi a via Nazionale aveva un'aria risicata e perciò invogliante, e seppure Papini avesse conosciuto Vallecchi già molti anni prima, quando gli era apparso «qualcosa di mezzo tra l'operaio emancipato e il poeta romantico». L'ingresso della tipografia di via Nazionale era poco più che uno sgabuzzino, e loro ci entrarono. Né ebbero da spiegar a lungo í loro intenti e programmi, ché nella Firenze intellettuale degli anni


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Dieci erano due star. Attilio Vallecchi era un uomo di poche parole e di pronte decisioni. Gli piacque l'idea di una rivista con quelle caratteristiche di libertà e di creatività, di irruenza polemica. Disse che si sarebbe accollato i costi di stampa di quelle otto pagine da pubblicare ogni quindici giorni, e avrebbe incassato il ricavato delle copie vendute. Fossero restati dei margini, sarebbero stati pagati i collaboratori più bisognosi. Nel gennaio del 1913 usciva il primo numero di "Lacerba". Sarebbe durata tre anni, una settantina di numeri in tutto.
Era il momento in cui Firenze faceva da agenzia toscana del futurismo marinettiano. Dopo i cazzotti che i due gruppi s'erano scambiati nel giugno 1911, quando Marinetti e i suoi erano venuti in treno da Milano ad avventarsi contro Soffici che stava prendendo un caffè alle "Giubbe Rosse", fiorentini e milanesi erano divenuti amici e complici. I pugilatori del 1911 erano adesso tutti assieme nell'impresa di "Lacerba". Umberto Boccioni (quello che aveva colpito con un gran manrovescio Soffici) come Aldo Palazzeschi, Luciano Folgore come Italo Tavolato, Papini come Carrà, Giuseppe Vannicola come Ottone Rosai, e tutti quanti, ivi compresi il poco più che adolescente Primo Conti e il giovane Alberto Viviani. E anche Giovanni Bellini, un poeta che di mestiere faceva il commerciante in sottaceti.
Il primo anno della rivista è un successone, sino a ventimila copie vendute di alcuni numeri. Più tardi successo e tirature decrescono. Vallecchi scrive a Papini che ha stampato ottomila copie ma che le rese sono tante. Quel che è certo è che una generazione ha messo il suo marchio su una stagione della cultura italiana. Dall'inizio del secolo e fino al primo dopoguerra, Firenze fa da crocevia e da baricentro della cultura italiana la più innovativa, la più avventurosa, la più fuori dagli schemi. Di quella cultura Vallecchi è, più che uno stampatore, un sodale appassionato. «Quel che non avrei letto neppure all'amico più prossimo del momento, quel che non avrei dato nelle mani della donna più vicina alla mia anima, quel che non avrei mostrato a nessuno dei primi o ultimi venuti nel mio cuore accogliente, l'ho dato sempre a te prima che ad altri. E non ho dovuto arrossire» scriverà Papini nel 1947, a un anno dalla morte di Vallecchi. Papini e Soffici e Vallecchi diventano una triade indissolubile nella storia della cultura fiorentina. Senza il contributo di un editore talmente affettuoso e partecipe, í due non avrebbero avuto la stessa capacità di azione e di irradiazione nel loro tempo. E comunque nel 1913, al momento della fondazione di "Lacerba", i due scrittori hanno già un lungo itinerario alle spalle, un itinerario ondivago e sussultorio ma fremente di vitalità. Ai loro due nomi ne va aggiunto subito un terzo, ma non certo terzo in ordine di importanza, quello di Giuseppe Prezzolini, il prodigioso artigiano che ha saputo impugnare lo stendardo della giovane intellettualità italiana, quella che osa e cerca al di là delle sistemazioni e delle piattezze


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della cultura positivista di fine secolo. La rivista da lui fondata e diretta a partire dal 1908, "La Voce", da anni è un punto di riferimento, un laboratorio delle nuove idee. È come se il Novecento italiano fosse nato in Toscana, una di quelle notti in cui restavano a lungo a parlare in due o in tre, avanti e indietro per quelle strade di cui amavano ogni sasso, e a tener loro compagnia c'erano due signore eleganti, «l'ironia» e «la melanconia». Ah come l'avevano amata la loro Firenze, che Palazzeschi descriverà cosi: «Mia Firenze, azzurro e fresco velino delle mattine dì primavera, luce rosea del tramonto sulle vecchie pietre dei tuoi edifizi, sui ponti del tuo Arno di smeraldo».
Palazzeschi a parte, che era figlio di un sarto di successo, viveva in una villa e s'era pagato il lusso di autoeditare i suoi primi libri di poesia (cui aveva dato per sigla editoriale il nome del suo gatto), sono tutti poveri in canna e devono misurare le lire. Pur di risparmiare, Papini fumava sigarette di infima qualità, le "popolari". Quanto a Soffici, una volta che si trovava a Parigi e aveva assoluto bisogno di un paio di scarpe nuove, i soldi in tasca erano talmente pochi da costringerlo a comprare le scarpe più a buon prezzo: solo che erano scarpe di cartone, e un acquazzone immediatamente gliele scollò e disfece.
Alla vigilia degli anni Dieci erano tutti tra i venti e i trent'anni, coetanei di Vallecchi. Papini era nato nel 1881, e nel 1908 aveva dunque 27 anni. Nato nel 1879, Soffici era di due anni più grande. Prezzolini, nato nel 1882, era il più giovane dei tre, ventiseienne al momento in cui fonda "La Voce". Palazzeschi era del 1885. Il più giovane della brigata fiorentina era Primo Conti, nato nel 1900, uno che portava ancora i calzoni corti quando andò a visitare la mostra di quadri futuristi organizzata dal libraio Ferrante Gonnelli a via Cavour, nel novembre del 1913.
Da direttore de "La Voce" e della omonima casa editrice — la cui collana più significativa, i "Quaderni", è stata pensata a ricalco dei parigini "Cahiers de la Quinzaine" di Charles Péguy — Prezzolini è quello che per tutti gli anni Dieci fa e disfa í fili della cultura che nel dopoguerra darà vita tanto al fascismo che all'antifascismo. Lettore entusiasta di Benedetto Croce ma anche dei mistici tedeschi, lui che è lo scopritore del giovane Benito Mussolini ma che sarà anche curioso del talento di un giornalista comunista di nome Antonio Gramsci, ha saputo costruire un catalogo di edizioni vociane dove stanno fianco a fianco Mussolini e i risentimenti antigiolittiani di Gaetano Salvemini, le poesie di Clemente Rebora e i romanzi di Piero Jahier, il secondo libro del poeta triestino Umberto Saba e i poemi del ferrarese Corrado Govoni, le "stroncature" di Giovanni Boine e la testimonianza morale di Scipio Slataper, gli "ideali" dell'economista e padre del liberalismo Luigi Einaudi nonché il primo libro di Roberto Longhi, un critico d'arte destinato a una carriera eccezionale


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L'alter ego fiorentino di Prezzolini a "La Voce", Papini, è una specie di sessantottino ante litteram, uno che nella sua giovinezza ha digrignato i denti contro tutto e ogni cosa, un ateo di tutte le teologie che sarà più tardi un grande "pentito" di quanto fosse stato anarchico e bestemmiatore nella sua giovinezza («Come fallito è una meraviglia» lo giudicherà Henry Miller negli anni Trenta). Polemista, poeta, romanziere, critico letterario, un tuttologo che abbaia molto e talvolta sa mordere, Papini è un personaggio campione di quella generazione che sta procedendo a tastoni, sbucciandosi le ginocchia, generazione di cui scriverà l'autobiografia in Un uomo finito, un libro edito naturalmente da Prezzolini. Quando "La Voce" comincia a diventargli troppo stretta, perché troppo ossessa dai problemi politici e dal rinnovamento civile dell'Italia, perché ai suoi occhi troppo predicatoria e moralizzante, Papini riunisce i suoi amici più fidati e comincia a pensare alla rivista di arte e lettere che sarà poi "Lacerba".
La vera redazione di "Lacerba" era nella famosa «terza stanza» di un caffè fiorentino che aveva a nome "Giubbe Rosse" e che era stato messo in piedi da un tedesco, il quale originariamente aveva voluto farne soprattutto una birreria. A poche centinaia di metri dalla tipografia Vallecchi, in una delle piazze meno belle di Firenze, piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica), erano due le porte a vetri, una sola delle quali faceva da entrata del caffè. Entravi, una prima stanza, poi una seconda che faceva da ristorante, a quel punto piegavi sulla sinistra e lì c'era la terza stanza, una stanza arredata con lunghi tavoli rettangolari e con qualche tavolino rotondo quella che era stata presa in affitto da un gruppo di innamorati degli scacchi. "Lacerba" fu la loro rovina. Immaginate quanto fosse agevole concentrarsi sullo studio delle aperture e delle controaperture in una stanzetta affumicata da sigarette e sigari e dove stava concionando Marinetti, oppure dove il napoletano Francesco Cangiullo stava esibendosi in tutto il suo pirotecnico repertorio verbale magari replicando ai motti da popolano fiorentino di Rosai. Tra futuristi e giocatori di scacchi fu una querelle continua e asperrima, con i giocatori di scacchi che minacciavano il proprietario del caffè di emigrare altrove, da cui i famosi versi di Soffici: «Giubbe rosse è quella cosa/ che ci vanno i futuristi,/ se discuton non c'è cristi,/ non puoi più giocare a dam.../».
E anche se il ritratto più efficace delle "Giubbe Rosse" al tempo di "Lacerba" lo ha scritto Adolfo Franci in quel suo toccante Il servitore di piazza pubblicato da Vallecchi nel 1922: «Soffici enunciava e spiegava, con la chiarezza che gli è propria, le più rivoluzionarie teorie sulla pittura servendosi del lapis per tracciare sul tavolino qualche disegno catastrofico; Papini demoliva, fra una sigaretta e l'altra, tutti i sistemi filosofici esistenti e di là da venire e spennacchiava, da maestro, i pavoncelli della letteratura contemporanea; Palazzeschi creava tiritere di versi ironico-fumistes e


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Ottone improvvisava uno di quei suoi saporosi dialoghi fiorentini tutti moccoli e parole da bordello, i quali facevano tanto effetto sugli animi timorati dei filistei».
C'è un quadro di Italo Griselli del 1913 che ritrae Papini e Vannicola seduti l'uno accanto all'altro, al tavolino dì un caffè fiorentino. Vannicola ha il corpo reclinato, Papini un gran cappello di paglia sulla testa. Naturalmente il caffè cui fa riferimento il quadro è le "Giubbe Rosse", il caffè che per eccellenza racconta la storia della cultura italiana dall'inizio del secolo sino alla vigilia della Seconda guerra mondiale. E del resto è un fenomeno comune a tutta l'Europa. Dappertutto i caffè hanno rimpiazzato i salotti. S'è rotto il numerus clausus dei salotti dell'aristocrazia o della borghesia straricca, quelli dove entravi solo se conosciuto e invitato.
La borghesia media, quella i cui modi di vita stanno sempre più innervando la società reale, s'è data i suoi nuovi punti di riferimento e di incontro. La vita metropolitana scorre adesso più veloce, più aperta, più disinibita. Nei caffè entri ed esci senza ricevere biglietti di invito formali e autografati, e senza doverne mandare uno di conferma. Non devi metterti in pompa magna per entrare in un caffè e passarci una mezz'ora; bevi quel che vuoi e spendendo quel che hai, chiacchieri, ozi, degusti l'insinuante trascorrere di donne che hanno un'aria assieme sofisticata e disponibile, tipo quelle che raffigurava Marcello Dudovich per i manifesti della Campari, ed erano manifesti nati a far pubblicità al "Caffè Campari" di Milano.
C'entrano tutti nei caffè, ragazze alla ricerca di un'emozione e giovanotti che non sanno ancora quale direzione prenderà il secolo, quelli che hanno poco tempo e quelli che non sanno che cosa fare del proprio tempo, socialisti e conservatori, giocatori di dama e alcolizzati, potenziali regicidi e ufficiali appena usciti dalla scuola di cavalleria. Si fa e si dice di tutto nei caffè europei di inizio del secolo; vi si progettano riviste letterarie, si trasmettono idee e informazioni, sì fanno le bucce alle beltà del momento, si pronunciano battute, si ghigna contro chi ha successo, si sparla di chi ha insuccesso.
Il momento più tempestoso e pubblicitariamente riuscito dell'era "Lacerba", e dunque dell'alleanza in chiave futurista tra toscani e milanesi, è la famosa «Serata futurista» che ebbe luogo al Teatro Verdì la sera del 12 dicembre del 1913, a un mese di distanza dall'inaugurazione della mostra di quadri futuristi a via Cavour. Alberto Viviani racconta che la preparazione ne fu lunga e accurata, parte in casa di Palazzeschi, parte alle "Giubbe Rosse". Era una serata di provocazione largamente annunciata cui le truppe antifuturiste si erano preparate in armi. «La sera prima delle otto il Teatro Verdi — uno dei più vasti di Firenze — rigurgitava di pubblico irrequieto ed elettrizzato. Nella sale e nei palchi si pigiavano come acciughe in un barile più di seimila persone. Un'ala del loggione


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era occupata da un intero collegio diretto da preti; e poi borghesi di tutte le gradazioni, studenti, gran parte degli iscritti ad una equivoca Unione Liberale, aristocratici noti ed ignoti, giornalisti, poliziotti, beceri e teppa in gran numero assoldata chi sa da chi» racconta Viviani in quel suo delizioso Giubbe Rosse pubblicato dall'editore fiorentino Barbèra nel 1933 e che la Vallecchi ripubblicherà nel 1983 in un'edizione arredata da immagini grafiche e fotografiche.
Tra futuristi e antifuturisti si preannuncia una sfida all'ultimo sangue. Le ostilità cominciano alle nove e mezza di sera. Sul palco gli oratori futuristi saranno in otto o poco più; contro di loro una canea urlante di alcune migliaia di persone. I primi dispongono delle loro parole in libertà, delle loro provocazioni, delle loro rotture del senso comune, della loro spavalderia. I secondi reagiranno a forza di lanci di ogni ben di Dio, carciofi, patate, cipolle, uova, castagne. Una patata centra in pieno e gonfia a dismisura l'occhio di Marinetti, il quale barcolla ma non si spezza. Delle cipolle sugosissime si schiacciano contro il vestito da sera di Amalia Guglielminetti, la poetessa che per l'occasione sedeva in un loggione di partigiani dei futuristi e immagino vociasse contro gli avversari. Il bersagliamento degli oratori futuristi è continuo, incessante. Il che significa che i loro avversari avevano apprestato al meglio il loro agguato, che il rifornimento delle munizioni e costante, organizzatissimo. Non per questo í futuristi cedono d'un passo, né Marinetti, né Soffici, né Carrà né Tavolato, né Boccioni. Sotto il fuoco degli ortaggi reagiscono con tutta la loro forza oratoria, controinsultano, lanciano motti sprezzanti. Quanto a Palazzeschi, lui non è uomo da combattimento di prima linea, lui sul palco non è salito. Uomo capace di ogni sfumatura e di ogni ironia ma non uomo da cazzotti fisici o verbali, lui se ne sta nel loggione dove sono la Gughelminetti, il diciannovenne Viviani, lo stesso Attilio Vallecchi, probabilmente non entusiasta della serata ma certo fautore della causa futurista. In quel trambusto indicibile, i più speciali di tutti sono i tre proprietari di altrettante paia di piedi che mai si smuoveranno un attimo dal cornicione del palco di terza fila dov'erano appoggiati. All'indomani della baruffa Palazzeschi scriverà di loro che erano stati i più futuristi di tutti perché avevano obbedito «al loro geniale e ribelle istinto di spingere per una volta almeno nella loro vita i piedi al posto della ormai troppo consueta testa». Inutile dire che la serata dei futuristi finì alle "Giubbe Rosse" dove irruppero tutti e dove li stavano aspettando, preoccupatissimi, i camerieri in casacca rossa loro amici. Ci rimarranno sino alle tre di notte, cantando e schiamazzando.
Su "Lacerba" Soffici commenta così la serata: «Disprezzar la folla è poco. Bisogna inebriarsi dello schifo ch'essa può causare, chi si avvicini ai suoi gorghi pestilenziali. Stasera ho bevuto per più di due ore il fiato esalante della sua ignominia. Vedersi davanti sei mila immagini della


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nullità, la personificazione millimorfa dell'avversione per l'intelligenza e la bellezza. Gioia veramente futurista di sentirsi un dio davanti a questa merda concittadina — mondiale — che non è neanche possibile odiare».
Insulto sprezzante contro insulto sprezzante, derisione contro derisione, gli antifuturisti fiorentini non si tirano indietro. Nella bibliografia del futurismo e sul futurismo è mitica una plaquettina che figura nel catalogo curato da Claudia Salaris ma che è praticamente introvabile e che ha per titolo "Rivista Acerba". Sono ventiquattro pagine esilaranti, pubblicate pochi mesi dopo la baraonda del Teatro Verdi, e dove lo sfottò dei futuristi comincia dalla dizione della tipografia in cui sarebbero state stampate. E mentre "Lacerba" era stampata da Vallecchi nello stabilimento di via Nazionale 25, la contro¬«Lacerba» sarebbe stata stampata in una tipografia sempre di via Nazionale ma al numero 20, ovviamente una tipografia che non è mai esistita. Non sappiamo chi siano gli autori della plaquette, certo che lo sfottò contro «Pipini», «Bovoni», «Pazzeschi» e «Grangrullo» è da piegarsi in due dal ridere. I futuristi dicono che loro sono della «merda»? Ebbene ecco gli antifuturisti stilare sarcasticamente i dieci «comandamenti» della truppa futurista: «1. Io sono Io! 2. Nessuno è più grande di Me. 3. Odia tuo padre, e più di ogni altra cosa tua madre. 4. Fornica con Tutti. 5. Ruba e distruggi la roba antica. 6. Ammazza il passato e chi lo rappresenta. 7. Desidera la donna, ma anche gli uomini degli altri. 8. Sappiti fare della reclame. 9. Vai in ... a tutti. 10. Odia il prossimo tuo come ami te stesso».
E a conclusione della plaquette ecco la lettera/invito ai futuristi a rinnovare una loro serata pubblica, alla maniera di quella al Teatro Verdi, «Ce ne sarebbe bisogno» perché gli ortaggi costano cari e non ci sarebbe occasione migliore per raccoglierne intere ceste. La lettera è firmata dagli «inservienti del Teatro Verdi», e "Acerba" la pubblica entusiasta.
Difficile dire quanto uno come Vallecchi, un uomo che era il contrario dell'esibizionista e che era stato allevato entro ai codici morali dell'Ottocento, si sia veramente divertito al Verdi. Certo è che con "Lacerba" lui sta per diventare editore e non più soltanto stampatore. È lui che pubblica quel gruzzolo di libri che portano come intestazione editoriale la sigla "Lacerba" e che sono ciascuno un piccolo cimelio di storia culturale fiorentina e italiana. Dall'Arlecchino di Soffici al pamphlet Contro la morale sessuale di Tavolato all'Almanacco della guerra pubblicato nel 1915. Come una talpa che scavi lentamente, Vallecchi sta conquistando terreno. È lui che pubblica adesso i libri degli autori vociani, che sino al 1916 erano stati stampati dalla tipografia Aldino di via dei Renai. Da una parte lo stampare libri talmente incendiari gli dà una speciale sensibilità tipografica e culturale, dall'altra la sua incipiente crescita aziendale ne fa inevitabilmente lo stampatore leader e mentre invece stanno boccheggiando le edizioni prezzoliniane, ormai al limite della bancarotta.


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Prezzolini non ce la fa più a pareggiare costi e ricavi, e difatti Vallecchi è entrato garbatamente nel consiglio di amministrazione della "Libreria della Voce". Un passetto ancora e ne sarà virtualmente il proprietario. Prezzolini cede il passo.
Una parte dei suoi titoli e dei suoi autori restano a Firenze, e dunque pronti a portare il marchio Vallecchi, un'altra parte luì la trasferisce a Roma, dove fonda, il 21 maggio 1919, la Società Anonima Editrice la Voce, la cui sede è al numero 8 di piazza Trinità dei Monti. Siamo alla vigilia del debutto della «Vallecchi Editore Firenze».
Ereditare il patrimonio culturale e editoriale delle edizioni vociane significa ereditare il meglio della cultura italiana del primo quarto di secolo, e mentre nuovi talenti si stanno affacciando sulla scena. Così come lo era stato Prezzolini, Attilio Vallecchi sarà un fiorentino che guarda all'Italia e insegna all'Italia. È ancora un momento, nella storia della nostra cultura, in cui tutte le strade passano da Firenze. Per Alberto Savinio come per Cardarelli, per Longanesi come per Emilio Cecchi, le "Giubbe Rosse" e i suoi dintorni fanno da magnete e da punto di riferimento.
Negli oltre sessant'anni che è durata la storia editoriale della Vallecchi ci saranno come due eccezionali vetrine simbolo. L'una la potresti montare con i libri editi attorno al 1920, l'altra con quelli pubblicati negli anni adiacenti allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Eppure, prima di mettere a fuoco gli autori e í titoli della vetrina dei debutti, quella che dal 1919 in poi segna lo sfolgorante avvio della «Vallecchi Editore Firenze», dobbiamo disegnare il profilo dell'autore che a nostro giudizio meglio combacia e si identifica con la storia della Vallecchi. Più ancora che non lo stesso Papini o un Piero Bargellini, o il Tommaso Landolfi degli anni Cinquanta, quest'uomo è Ardengo Soffici.
C'è che Soffici era contemporaneamente uno scrittore e un pittore, e non che in una delle due attività fosse mediocre. Da pittore era potenzialmente un designer e un grafico, era stato difatti lui a disegnare il logo di "Lacerba" ma anche certe carte che avevano impreziosito alcune edizioni vociane. Del Vallecchi editore lui fu certamente un consulente se non proprio il grafico ufficiale, quel che nel secondo dopoguerra sarebbe stato Bruno Munari alla Einaudi. E poi c'è che da stampatore Vallecchi aveva messo mano a un libro di Soffici che era speciale su tutti e che oggi costituisce una pietra miliare della letteratura futurista, il BÌF§ZF + 18. Sìmultaneità e Chimismi lirici pubblicato dalle edizioni della Voce in trecento copie. (Un esemplare ne è stato venduto qualche anno fa, in una fiera antiquaria, al prezzo di trenta milioni. Lo venisse a sapere Soffici, lassù in paradiso magari gli verrebbe in mente il giorno in cui aveva così pochi soldi ìn tasca da poter comprare solo un paio di scarpe di cartone.) Un libro a stampare il quale non puoi non entrare nell'anima di chi lo ha scritto, e se entri in quell'anima non ne esci più.


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È comunque inesatto quel che scrive uno studioso di Soffici e che Luti riporta nel suo Firenze corpo 8 (pubblicato dalla Vallecchi nel 1983), e cioè che il primissimo e scarno libriccino pubblicato da Soffici nel 1909, Ignoto Toscano, fosse stato pubblicato da Vallecchi. Era stato sì stampato da Vallecchi ma invece pubblicato dai librai-editori Seeber, quelli che avevano sede al numero 20 di via Buonarroti. (L'esemplare in mio possesso porta in sovrimpressione, sulla dizione editoriale di copertina, l'intestazione della Libreria della Voce, segno che Prezzolini ne aveva acquistato e diffuso le copie restanti.) È un libro scarno e come volutamente marginale, l'autoritratto di un uomo che se ne vuole stare per i fatti suoi e se ne infischia di tutti, ma in cui c'è già un Soffici intero. Il quale all'epoca non era più un giovanotto, stava toccando i trent'anni. E difatti se è vero che le pagine dell'Ignoto sono poche e scarne, il bottino che quel trentenne ha già nello zaino è cospicuo. Lunga e intensa, a dirla con un'espressione ormai famosa, era stata la sua esperienza del dolore. Nessun altro italiano della sua generazione conosceva a memoria quanto lui quella che era allora la capitale della cultura occidentale, la Parigi di Pablo Picasso e Guillaume Apollinaire, tanto che loro tre gli intellettuali parigini li chiamavano «i tre moschettieri». L'«uomo del Poggio», così smaccatamente radicato nei colori e nei sapori della Toscana, era un cittadino europeo di prima fila.
E difatti dopo quel debutto di trenta pagine, i libri non potevano non venir fuori a mitraglia, uno dopo l'altro nello spazio di pochi anni. Nello stesso 1909 e ancora con l'intestazione editoriale dei Seeber esce il bellissimo Il caso Medardo Rosso, che farà da incunabolo di un successivo libro vallecchiano del 1929. Nel 1911 esce, per le edizioni della Voce, il saggio/monografia su Arthur Rimbaud. L'anno dopo è la volta del Lemmonio Boreo, il primo suo romanzo. E poi le due edizioni di Cubismo e oltre, i due libri dov'è il ragguaglio della sua esperienza di prima mano dell'arte parigina di inizio secolo. Nel 1915 raccoglie in volume le note e i frammenti che era andato pubblicando su "Lacerba", e ne viene fuori quello che i suoi sodali giudicavano il suo libro più importante, Giornale di bordo. Poco prima erano usciti i Chimismi lirici di cui abbiamo parlato, di cui Vallecchi pubblicherà un'edizione modificata e accresciuta nel 1919. Romanzi, libri di critica, diari, schermaglie, pagine di un'invenzione grafica e tipografica che regge appieno il confronto con quanto di meglio produrrà l'avanguardia europea tra anni Dieci e Venti.
Di tutto fuorché la politica. E del resto lo aveva confessato già nell'Ignoto toscano, che della politica non sapeva nulla e non gliene importava nulla. Quanto alla politica resterà sempre un ingenuo e un provinciale, cosi come ingenue e retoriche saranno le ragioni della sua adesione al fascismo. Quando scoppia la Seconda guerra mondiale, e i nostri soldati le stanno buscando una battaglia


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dopo l'altra, Soffici resta sgomento, senza parole di fronte alle lettere di un Prezzolini che dall'America gli sta spiegando lucidamente che non c'era da aspettarsi altro, che l'Italia fascista non era affatto una grande potenza industriale, e che quando sarebbe venuto il tempo dell'acciaio noi avremmo pagato duramente di fronte a chi aveva più acciaio e più organizzazione di noi. Da questo punto di vista una figura come Soffici prelude quelle di tanti intellettuali della sinistra o dell'estrema sinistra italiana degli anni Settanta e Ottanta, gente talvolta vitale nel loro specifico campo di espressione, ma capaci solo di luoghi comuni "sinistresi" quando mettevano becco nella politica e nei suoi criteri. Vi ricordate il tempo dell'esaltazione di cubani, vietnamiti e cinesi purché "rossi"? Sapete di che cosa sto parlando.
E tuttavia un punto di differenza tra Soffici e quella genia intellettuale c'è. C'è che lui un pezzo della politica, un pezzo della storia reale, l'ha vissuta in prima persona. La Prima guerra mondiale l'aveva fatta, non è che gliel'avessero raccontata o inventata, com'era stato della Cina o del Vietnam per i galantuomini di cui ho detto prima. L'esperienza della guerra, Soffici l'ha fatta. Le trincee, le notti passate ad aspettare il momento in cui scattavano gli attacchi alla baionetta, le bombe che ti esplodevano vicino, il fango e il freddo, il piombo che ti entra nella carne, gli amici che guardavi negli occhi mentre stavano morendo, il coraggio e la viltà di chi combatte. Ebbene, la guerra è uno snodo fondamentale per la storia culturale degli autori prima vociani e poi vallecchiani. Impossibile dire se di quel massacro ne fosse valsa la pena, certo è che in guerra dovevi esserci stato. A meno di non disertare.
Uno dei punti fondamentali di incomprensione, se non di analfabetismo, nei giudizi che la sinistra intellettuale di questi ultimi decenni ha dato del primo dopoguerra e dei suoi sviluppi politici (a cominciare dal famoso giudizio di Norberto Bobbio secondo cui il fascismo era stato un movimento politico privo di una sua "cultura"), sta nell'ignorare il fattore "guerra vissuta", l'orgoglio di chi aveva combattuto in prima linea perché l'Italia fosse più degna e più grande. Gli autori vociani e vallecchiani la guerra l'avevano fatta, e ne andavano a testa alta. L'hanno fatta quelli che ci credevano molto nel nome di un nazionalismo acceso, e quelli che ci credevano meno. L'hanno fatta quelli che erano versati nell'azione e nel colpo di mano e quelli che erano abituati a sedere in biblioteca. L'hanno fatta í figli della borghesia, e nelle loro casacche da ufficiali ne sono morti a caterve falciati dalle mitragliatrici tedesche che li puntavano particolarmente mentre quelli stavano guidando l'attacco. L'hanno fatta, e molti di loro erano partiti come volontari, Umberto Boccioni e Renato Serra, Prezzolini e Soffici, Bellini e Rosai, Ugo Tommei e Marinetti, Ungaretti e Piero Jahier, Carlo Linati e Scipio Slataper. Alcuni di loro non sono tornati, Boccioni e Serra e Tommei e Bellini


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e Slataper, ma le ragioni del loro sacrificio sono indelebili nel ricordo dei loro amici.
All'indomani della guerra due Italie sì fronteggiano, quella di chi ha patito il sangue e il sudore delle trincee e quella di chi deride l'esperienza delle trincee. La figlia dì Carlo Delcroix, medaglia d'oro al valore militare per aver perso le mani e gli occhi nel tentativo di disinnescare una bomba nemica, mi ha raccontato che un barbiere fiorentino s'era messo a sfottere i combattenti mentre gli stava facendo la barba, e che Delcroix si alzò in piedi, impugnò il bastone e sfascio tutto. Anche se non fosse vero, il racconto è verosimile. Com'è certamente vero il ricordo di un Romano Bilenchi che pure era divenuto comunista dopo il 1940, e cioè che nel 1919 lui vide a Siena la gente che si avventava sugli ufficiali a strappar loro le mostrine. Non era un deprecare la guerra e i suoi orrori, era un offendere quelli che l'avevano fatta, offendere quelli che erano morti con il nome dell'Italia sulle labbra.
È un punto di discrimine senza il quale non capisci nulla di quello che è avvenuto in Italia dal 1922 in poi, a cominciare dal fatto che il colore nero delle camicie dei fascisti era il colore preferito dai combattenti più coraggiosi della Prima guerra mondiale, gli Arditi. Ancora a più di ottant'anni di distanza da quegli avvenimenti è come se la buona parte della sinistra intellettuale non avesse capito tutto questo, quanto fosse ottuso quel "pacifismo" e quanto legittima la reazione di quelli che avevano combattuto pagando un prezzo altissimo.
E comunque l'esperienza della guerra informerà di sé una parte notevole della letteratura vociana e vallecchiana, dal Kobilek di Soffici al Libro di un teppista di Rosai. E a non dire dal significato postumo che prendono i libri di chi è morto in combattimento, l'Esame di coscienza di un letterato di Serra come il libro di poesie di Bellini (l'Arciviaggio che Vallecchi pubblica nel 1921), Non sono soltanto dei libri, sono le vene attraverso le quali circola il sangue di una generazione.
Ma torniamo a quell'identikit di Soffici che vi avevo promesso, al Soffici degli anni dei suoi debutti intellettuali, tra 1908 e 1915. È un Soffici leggero, anarchico, insofferente delle sistemazioni filosofiche che pretendono di spiegare tutto, estraneo alle motivazioni della politica ufficiale e istituzionale, felice che "Lacerba" sia letta nei bordelli. È un Soffici che, forte del suo Rimbaud, carica a testa bassa contro tutto ciò che di risaputo e prevedibile c'era nella morale ottocentesca. È un Soffici che ha conosciuto il sapore amaro delle panchine del Quartiere Latino, una notte d'inverno. È un Soffici che difende il diritto di Oscar Wilde di avere le predilezioni sessuali che erano le sue, E un Soffici che ce l'ha a morte con i tedeschi («i teutonici») perché li vede corazzati di pensieri metafisici e di costruzioni filosofiche che vogliono ingabbiare la vita e la sua naturale diversità. È un Soffici che legge e ama Papini come fosse un Nietzsche italiano. È un Soffici che ama la Donna


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Assoluta, che ne attende l'avvento, e che nel frattempo sentimentalmente si annoia. È un Soffici che indica in Stendhal il suo padre spirituale. È un Soffici che spinge via Croce perché troppo "logico", troppo astratto, troppo lontano da tutto ciò che nella vita è disordine e vitalità. È un Soffici che scrive cosi: «Ah! Poter avere uno stile che sbucciasse il mondo sensibile come un'arancia che ti metterei davanti col suo profumo e col suo sugo colante! Che ogni parola fosse pretta e concreta al pari della cosa stessa che significa, e si movesse col tessuto della frase come le molecole di un corpo in perpetuo travaglio vitale! Io ti darei allora tutto questo universo che si rimescola dentro dì me e quasi mi soffoca». Ve l'avevo detto, è l'autore della Vallecchi per antonomasia.
E siamo così alla nascita di «Vallecchi Editore Firenze», 1919, a via Ricasoli 8. A connotare quel debutto, proviamo a indicare alcuni titoli. E se dobbiamo citare un titolo che li riassuma tutti a indicare il fiuto e il coraggio del nuovo editore, questo è il libro di poesie di Ungaretti del 1919, Allegria di naufragi, in sostanza il primo libro di Ungaretti dato che il Porto sepolto, il libro autoedito in ottanta copie a Udine nel 1916, era un'edizione che aveva circolato solo fra gli amici più affezionati. Anche quello un libro impastato con l'esperienza della guerra vissuta, con il fango e con il dolore delle trincee. Ricordiamone la storia.
Dal dicembre 1915 all'ottobre 1916 il soldatino Ungaretti, l'«uomo di pena», ci aveva messo una decina di mesi a scrivere le trentatré poesie del Porto sepolto, il libro che assieme a quello di Dino Campana cambierà il volto della poesia italiana. Scabre e ruvide come i sassi del Carso, quelle poesie le aveva scritte un po' come gli veniva, su ritagli di giornale, sul retro delle buste, e il tutto lo teneva insaccato alla men peggio nel suo zaino da soldato. A metà strada di quei dieci mesi, nella primavera del 1916, durante una pausa dei combattimenti, Ungaretti era stato avvicinato da un tenente che gli chiese il suo nome. E siccome quel tenente, Ettore Serra, amava la poesia, il nome di Ungaretti per lui non era nuovo. Innamorato dei bei libri, intriso di cultura francese, è Serra a volere e a curare l'edizione del Porto sepolto in ottanta copie numerate, alla maniera delle edizioni francesi per bibliofili.
Il 18 dicembre 1916, due giorni dopo l'uscita del libro, Ungaretti parti per una licenza e si portò appresso un po' di copie, da donare agli amici di Napoli e di Firenze. Di certo donò una copia a Papini un'altra a Carrà, probabilmente una terza a Soffici. Da quel dicembre 1916 in poi continuo a scrivere poesie, alcune delle quali vennero pubblicate in Francia, altre su riviste italiane. In tre anni gli si era formato un gruzzolo di poesie tali di che formare un nuovo libro. Naturalmente lo propose a Vallecchi.


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Gli si presentò, a via Ricasoli, avvolto in una mantellina che non gli arrivava neppure ai gomiti e con in testa un cappellaccio bisunto. In una valigetta sfranta che si portava appresso c'erano i libri, la biancheria, una bambola portafortuna, il manoscritto con le nuove poesie. Nel 1947 Ungaretti racconterà così l'incontro con Vallecchi di quasi trent'anni prima: «Ricorderò sempre come strinse nelle sue mani il manoscritto della mia Allegria dì naufragi, subito dopo l'altra guerra. Fu come se il soldatino scalcinato ancora coperto dei suoi vestiti della trincea, gli avesse offerto un tesoro».
Allegria di naufragi uscì nel 1919, una delle primissime gemme del catalogo Vallecchi. Nel Catalogo 1952 curato da Enrico Vallecchi e dov'erano elencate le opere «variamente famose» che facevano da stemma della casa editrice, c'era naturalmente l'Allegria. La copia in mio possesso è quella che faceva parte della collezione del poeta Leonardo Sinisgalli, collezione messa all'asta dalla Christie's di Roma il 14 maggio 1991. Nel catalogo d'asta il libro era stato quotato 150¬200.000 lire. Io lo pagai 345.000 lire più i diritti d'asta. In un catalogo odierno supererebbe i due milioni, a dirne la rarità e importanza.
Serviamoci di quell'elenco stilato nel 1952, a montare la vetrina simbolo della Vallecchi dei debutti. Il libro di Ungaretti a parte, ci sono due o tre libri di Massimo Bontempelli, i Viaggi nel tempo di Cardarelli (pubblicato nel 1920), Pittura metafisica di Carrà (1921), i Discorsi di religione di Giovanni Gentile (1921), Due imperi...mancati di Palazzeschi (1920), quel Trucioli del 1920 che è il libro più bello di Camillo Sbarbaro, due o tre libri di Soffici fra cui particolarmente importante Rete Mediterranea (1920), i quattro numeri della rivista che s'era costruito e scritto da solo a far capire a tutti che l'avventura futurista lui ce l'aveva ormai alle spalle. Quale altro editore del tempo avrebbe potuto vantare una tale sfilata di capolavori, di opere che fanno data e lasciano un segno? E anche se nell'elenco di Enrico Vallecchi un paio di omissioni ci sono, Clamorosa la prima, l'esclusione dalla sfilza di «opere variamente famose» di quel Pesci rossi di Emilio Cecchi che Vallecchi padre aveva pubblicato nel 1920 e che segna una tappa miliare nel ritorno al "bello scrivere" del primo dopoguerra. Un libro talmente speciale che dirlo famoso è poco, e anche se ci vorranno vent'anni a esaurirne la prima edizione. L'altra esclusione, questa che ha l'aria di essere maliziosa, è il nome stesso di Giuseppe Prezzolini, di cui non un libro viene citato. Era forse una ripicca di Vallecchi figlio perché Prezzolini non aveva mandato nulla di suo e di esteso a significare l'affetto per Vallecchi padre in quel volume del 1947 (Attilio Vallecchi nel ricordo di alcuni amici) che lo celebrava a un anno di distanza dalla morte? Certo è che in un elenco dei capolavori con il marchio Vallecchi non poteva mancare uno dei libri più belli di Prezzolini, quell'Amici del 1922 che si apriva giusto con un omaggio ad Attilio Vallecchi.


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Così come in quell'elenco di capolavori e di opere presaghe, nel senso che annunciavano il destino di scrittori che sarebbero poi divenuti celeberrimi, non poteva mancare un libro che non portava ancora il marchio editoriale della Vallecchi ma che era un libro interamente vallecchiano, perché interamente voluto da Attilio Vallecchi. Ed era il libro d'esordio di Alberto Savinio, l'Hermafrodito del 1918 che porta ancora la sigla editoriale della «Libreria della Voce» ma che è un libro passato dalle mani di Vallecchi e da lui accettato. Savinio gli era stato presentato due anni prima, da Papini e Soffici. Ci voleva un coraggio leonino a pubblicare un libro talmente sofisticato e inusueto. Quel coraggio Vallecchi lo ebbe.
A pubblicare un libro di Cardarelli invece non ci voleva coraggio, ci voleva amore. All'epoca di Viaggi nel tempo, pubblicato da Vallecchi nel 1920, il trentatreenne Cardarelli era già uno scrittore noto. «Sono nato celebre» era solito vantarsi. A Roma, nel 1919, era stato lui a far da baricentro della rivista "La Ronda", quella che aveva predicato il ritorno allo scrivere ritmato ed elegante contro le asprezze e le incomunicabilità della letteratura d'avanguardia. A conoscerlo e a frequentarlo Cardarelli era talmente seduttivo ma talmente ostico, talmente irradiante ma talmente egocentrico. Aveva tali pregi e tali difetti, come uomo e come scrittore, che potevi solo amarlo o odiarlo. Vallecchi lo amò.
Non che il libro di Cardarelli, quanto alla sua importanza oggettiva, possa rivaleggiare con quello di Ungaretti pubblicato l'anno precedente. Il capolavoro di Cardarelli apparirà molti anni dopo, quel Poesie che le edizioni di Novissima pubblicheranno nel 1936. Eppure ci sono pagine di poesia e di prosa di Viaggi nel tempo che non si possono dimenticare e omettere, a cominciare da quelle dedicate a immagini di donna, e che anticipano la splendida Adolescente del 1936, una delle più belle poesie che il Novecento italiano abbia riservato alla donna. Versi come questi: «Esiste una bocca scolpita,/ un volto d'angiolo chiaro e ambiguo,/ una opulenta creatura esangue/ dai denti di perla,/ dal passo spedito,/ esiste il suo sorriso,/ aereo, dubbio, lampante/ come un indicibile evento di luce». Oppure la pagina di prosa in cui racconta che Dio aveva creato l'uomo a sua immagine, ma poi temé che una tale creatura gli portasse ombra, e perciò gli mise accanto, a creargli dei guai, la donna. La creò a tradimento, e mentre l'uomo dormiva. Quando quello si svegliò si vide accanto ciò da cui gli sarebbe venuto ogni pericolo e ogni agguato della sua vita: qualcosa di talmente attirante e di talmente pericoloso, un'«Eva superba» che d'ora in poi avrebbe fatto da paradiso e da inferno della condizione maschile.
Di tutti gli autori cari al Vallecchi dei debutti, ce n'è uno che merita un'attenzione e un discorso speciale. Anche lui un fiorentino, Palazzeschi. Uno che nel 1920, quando Vallecchi gli pubblica


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Due imperi... mancati, il libro dov'è assai speciale la costruzione narrativa che racconta lo sgomento di chi s'è trovato dentro alla «guerra europea» che s'era appena conclusa, aveva già alle spalle un eccezionale destino. Trentacinquenne, aveva già firmato una nidiata di capolavori, a cominciare da quel Codice di Perelà del 1911 che dovrebbe figurare nella bibliografia futurista (era stato pubblicato da Marinetti nella sua collana editoriale), ma che in realtà è un libro di tale surrealismo da lasciarsi indietro di mille miglia tanti e celebratissimi surrealisti francesi. O meglio, Palazzeschi era Palazzeschi e basta. In poesia e in prosa il suo tocco era unico, quella mistura di intelligenza e di ammiccamento, quel suo essere così saturo e così leggero, quel sapere dove andare e andarci in punta di piedi e lungo percorsi che altri non avevano tentato. Era stato futurista, ancor prima di Papini e Soffici, in realtà era rimasto Palazzeschi senza spostarsi di una virgola. Un po' un saltimbanco, un po' uno che la sa lunga, un po' uno che quando racconta e inventa non sbaglia un accento.
Ma quel che è prodigioso in Palazzeschi, è che lui è l'autore che collega le due vetrine simbolo nella storia della Vallecchi, la vetrina dei debutti e la vetrina degli anni Quaranta. Trentacinquenne, il Palazzeschi del 1920 aveva ancora davanti cinquanta anni di libri e di creatività. Ancora da Vallecchi, nel 1948, pubblica I fratelli Cuccoli. E se un Giacinto Spagnoletti scrive che i suol libri della vecchiaia risentono del suo «stato di bontà zuccherosa», uno dei più intelligenti critici dell'ultima generazione, il romano Franco Cordelli, ha scritto che Il Doge, pubblicato da Mondadori nel 1967 (quando Palazzeschi aveva 82 anni) è uno dei suoi libri più riusciti. E comunque, prima di pubblicare nel 1964 il suo primo libro mondadoriano, tra 1920 e primissimi anni Cinquanta Palazzeschi aveva pubblicato da Vallecchi una decina dí libri, tra cui il famosissimo Sorelle Materassi del 1934 e lo splendido Bestie del 1951 illustrato da Mino Maccari. Il marchio di autore-Vallecchi non glielo può togliere nessuno.
Un marchio che a Dino Campana, l'autore di Canti orfici, si addice solo in parte. Probabilmente perché il caso avverso ci mise lo zampino. Secondo quel che racconta Ardengo Soffici, il poeta marradese gli si era presentato un giorno del 1913 che lui e Papini erano seduti nella stanzuccia di via Nazionale che faceva da ufficio di Vallecchi e da redazione di "Lacerba". Tarchiato, capelli e barba di un biondo acceso, uno che aveva l'aria di essere sui venticinque anni, Campana gli aveva raccontato che era venuto a Firenze a piedi da Marradi (lassù in cima all'Appennino), un tragitto che oggi a percorrerlo in macchina ci vuole un'ora buona. Quel giorno faceva «un freddo infame», e Campana aveva indosso solo «un cappelluccio» e un vestito di mezzalana. Di un soprabito nemmeno l'ombra. Campana disse che aveva scritto delle poesie e che gli sarebbe piaciuto vederle


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pubblicate su "Lacerba". Ben volentieri, risposero i due lacerbiani e a quel punto lui tirò fuori un quadernaccio di quelli su cui si fanno i conti e dov'era il manoscritto dei Canti orfici. Dopo di che li salutò e partì. A una prima lettura, sia Papini che Soffici ebbero l'impressione di trovarsi innanzi delle poesie notevoli, e dunque volentieri le avrebbero pubblicate sulla loro rivista.
Solo che di Campana non ebbero più notizie. Lo rividero solo nel novembre di quello stesso anno, all'inaugurazione della mostra di quadri futuristi a via Cavour. Né in quell'occasione Campana chiese loro che fine avesse fatto il suo quadernaccio, né i due, colpevolissimi, glielo ricordarono. (Almeno cosi racconta Soffici, un racconto che è stato più volte rovesciato di segno e con sprezzo nei suoi confronti, ad esempio da Sebastiano Vassalli ne La notte della cometa,) Solo verso la primavera del 1914 Soffici ricevé una lettera in cui Campana gli chiedeva di rispedirgli il manoscritto, perché non ne aveva un'altra copia e intendeva pubblicarlo. Soffici si scusò che aveva appena fatto dei traslochi, che dappertutto a casa sua c'era una gran confusione e che al momento di ritrovare quel quaderno non ci riusciva proprio. Racconta ancora Soffici: «Passarono così vari mesi. Quand'ecco che un giorno in cui mi trovavo a Firenze, guardando distrattamente nella vetrina di un libraio di via dei Martelli, il mio sguardo fu attratto da un libro giallo dall'aspetto francese ma che non era francese, e sulla cui copertina spiccava un titolo che subito mi piacque: Canti orfici. Lessi il nome dell'autore ed era quello di Dino Campana».
Si trattava della mitica e drammatica edizione marradese del 1914. Campana aveva raccolto i soldi fra gli amici per pagare le mille copie a una tipografia del suo paese, la tipografia Ravagli di via Fabroni. E siccome i soldi non li aveva raccolti tutti, le copie le ritirava man mano che ne aveva i soldi corrispondenti. Quando Campana venne rinchiuso in un istituto per malati di mente, ne aveva ritirate non più di trecento copie. La gran parte delle mille copie giaceva ancora alla tipografia Ravagli. Dino supplicò il fratello di recuperarle, ciò che il fratello fece per poi conservarne i pacchi nella soffitta della loro casa di famiglia a Marradi, lassù in cima all'Appennino, una casa ovviamente senza riscaldamento e in cui io sono entrato un giorno d'inverno di alcuni anni fa. In Siberia non credo si stesse peggio. Esattamente quel che pensarono i soldati inglesi che nell'inverno del 1944 avevano requisito la casa dei Campana ai tempi in cui l'Italia era spaccata in due, da una parte i tedeschi e dall'altra gli alleati, e la linea divisoria del fronte passava per l'appunto dalle parti di Marradi. I soldati inglesi trovarono quei pacchi in soffitta e pensarono che fossero atti alla bisogna, rendere meno ghiaccia la casa dove alloggiavano. Probabilmente non meno di cinquecento-seicento copie dei Canti orfici andarono in fiamme. il che spiega l'incredibile rarità dell'edizione marradese. (Oggi ci vogliono almeno otto milioni a volerne comprare una copia.)


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E dire che senza la colpevole sbadataggine se non strafottenza di Soffici, il libro sarebbe andato certamente sotto i torchi della Vallecchi e avrebbe avuto una sorte meno drammatica. E comunque alla Vallecchi il libro di Campana prima o poi ci andò a finire. Un giorno Soffici finalmente ritrovò il manoscritto che gli era stato lasciato dall'ardente e ingenuo poeta marradese, così come vennero ritrovati appunti e abbozzi che Campana non aveva incluso nell'edizione del 1914. Il testo del quadernaccio in mano a Soffici era sensibilmente e ripetutamente diverso da quello pubblicato da Ravagli. Tutto un materiale "inedito" che è stato poi pubblicato dalla Vallecchi. A cominciare dall'edizione completa e definitiva dei Canti, curata da Enrico Falqui e pubblicata nel 1952, a vent'anni di distanza dalla morte del poeta marradese.
C'è una domanda d'obbligo. Quali furono i rapporti della Vallecchi con il fascismo? La casa editrice fece dei servigi di basso conio alla dittatura? Che la gran parte degli autori vallecchiani, e Attilio Vallecchi in primis, fossero divenuti fascisti non v'ha dubbio. Lo erano Papini, Soffici, Rosai, il giovane Bilenchi, Mino Maccari seppure alla maniera sua, quel Giovanni Gentile di cui la casa editrice farà uno dei suoi perni intellettuali. Abbiamo detto del collante costituito dall'aver fatto la guerra e esserne orgogliosi, una bandiera che era stato il fascismo a impugnare e di cui la sinistra non capì la decisività morale e politica. Adesione entusiasta della Vallecchi al fascismo, quella si; servigi di basso conio, quelli no.
Nel 1927 apparve un opuscolo vallecchiano dal titolo Idee e libri che prepararono la Nuova Italia (1902- 1927), dove quelle idee e quei libri e quelle riviste sono raccontati e spiegati in funzione dell'apologia del governo mussoliniano. Ecco com'è raccontata l'annata culturale 1921: «Nel campo dell'azione bisognava finirla colla politica del quieto vivere e delle pastasciutte per tutti: nel campo delle idee, che mai come in questi tempi sono state vivissima azione, c'era da far argine alla letteratura delle garçonnières e alla filosofia della pancia piena. Ecco la nostra casa a raccogliere l'Arciviaggio del Bellini dì "Lacerba", morto giovane per la mamma Italia: eccola a ristampare il Lemmonio Boreo, manuale del galantuomo e presentimento della riscossa fascista: ecco il Filareti coll'Eolo Giano Mercurio, una ghigliottina psicologica pe' venerandi condottieri dell'Italia democratica, Nitti e Turati, in tempi che quest'Italia democratica era governo e Stato. Nei Fatti e teorie di Vilfredo Pareto c'è la lucida risposta del realismo italiano alle astrattezze magre dell'economia di scuola. E col saggio su Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento la Casa principia a dare le opere di Gentile, il filosofo del fascismo». Faziosità e strumentalizzazione politica a parte, i libri citati appartengono comunque alla storia della cultura italiana di questo secolo. E del resto sono citati anche i libri di quelli che fascisti non erano o non vollero


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diventarlo, da Piero Jahier a Luigi Russo a Umberto Zanotti Bianco. Quell'opuscoletto del 1927 è fazioso, non volgare.
Nel 1935, quando la Vallecchi è nel pieno della sua estensione editoriale (e quando il fascismo è nel pieno della sua riuscita propagandistica e della sua capacità di persuasione emotiva), la casa editrice pubblica un monumentale catalogo storico dove sono elencate e connotate una a una le opere pubblicate col marchio Vallecchi. I libri che attengono al "fascismo", e ne fanno l'apologia, sono elencati da pagina 161 a pagina 188, un numero di libri nemmeno spropositato se si pensa che il catalogo consta di ben 475 pagine. Libri di Enrico Corradini, Giuseppe Bottai, Camillo Pellizzi, Michele Campana, Carlo Delcroix, Mino Maccari, del debuttante Romano Bilenchi (che nel dopoguerra li rinnegherà come estranei al suo mondo poetico). Nulla di smaccato o di basso conio, e a non dire che il fascismo fiorentino era tra i più irrequieti nel Paese, e basterebbe pensare a personaggi come Berto Ricci e Rosai, personaggi vicinissimi alla casa editrice. Di Rosai la Vallecchi aveva pubblicato nel 1930 la seconda edizione del Libro di un teppista. Ricci si guadagnava da vivere collaborando ai bollettini editoriali della Vallecchi.
Una curiosità piuttosto, una chicca. Tra í libri che nel 1935 venivano indicati fra quelli che tessevano l'apologia del fascismo, ce n'è uno che sparisce dal catalogo 1952. Questo libro-fantasma era l'unico libro che Leo Longanesi avesse pubblicato senza essere l'editore di se stesso, e aveva per titolo Vade-mecum del perfetto fascista. Vallecchi lo aveva pubblicato nel 1926, il prezzo di copertina ne era due lire e cinquanta. Nel catalogo del 1935 era indicato a pagina 182, nel catalogo del 1952, alla lista «autori», non c'era proprio. Era divenuto un libro fantasma. E siccome in certe bibliografie quel libro compariva e in altre no, c'è stato un periodo in cui persino gli studiosi e gli appassionati di Longanesi dubitavano che quel libro esistesse veramente. In quindici anni che colleziono le prime edìzioni del Novecento italiano, quel libro l'ho visto comparire nei cataloghi antiquari non più di tre o quattro volte. È un libro spassosissimo, un Longanesi a cento carati. Un Longanesi a cento carati lo è anche fisicamente, editorialmente, così diverso com'è dagli altri libri vallecchiani di quel periodo. Quelli così sobri, una tipografia all'essenziale, una copertina rigorosamente afigurata; e invece il libro di Longanesi aveva l'immagine dì un coltellaccio da ardito in copertina e un'audace costruzione bicolore di corpi e di caratteri quanto alla dizione del titolo e sottotitolo. Probabilmente Longanesi chiese e supplicò si facesse così, e il buon Attilio Vallecchi disse di si a costo di deviare dai suoi principi tipografici.
L'avessero avuta gli adoratori di Mao e di Castro degli anni Settanta la stessa autoironia che aveva Longanesi nell'aderire al fascismo. Il Vade-rnecum è difatti il primo libro pop italiano, un libro in cui


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si dà il massimo di rilievo alla realtà col risultato finale dì deformarla. È come se Longanesi sfottesse se stesso nella sua veste di aedo del mussolinismo. Le spara talmente grosse che lui stesso ha l'aria di non crederci fino in fondo, o comunque di essere pronto a farcì una risata sopra. Il catalogo vallecchiano del 1935 riferiva il parere di un giornalista secondo cui quel libro sarebbe piaciuto enormemente al Duce; ne dubitiamo assai. Un libro in cui per cinquantacinque pagine si elencavano gli "assiomi" del perfetto fascista per poi chiudersi così: «Questi sono consigli: tu alla maniera fascista fregatene, ma ricordati che a forza di fregarsene si arriva all'anarchia. Signori sì chiude!». Come a dire che si chiudeva la sciarada, la smargiassata; chi l'aveva bevuta l'aveva bevuta, se no pazienza. È l'unico libro di Longanesi dì cui lui non sia l'editore di se stesso, e seppure la sua veste editoriale sia stata da lui influenzata. Il Longanesi del 1927 sta già dando vita alla prima casa editrice della sua vita, ai libri che hanno per sigla «L'Italiano Editore in Bologna», i libri di cui Gianfranco Contini dirà che sono stati i libri più belli della sua generazione. A fare quei libri Longanesi si porta appresso qualcosa che ha imparato dall'editoria fiorentina e dalla sua vivacità. Su tutto il gusto dell'"Almanacco", un genere che sembrava tagliato su misura per i toscanacci come Soffici e Maccari. Ed è in combutta con Maccari («i due nani di Strapaese») che Longanesi pubblica nel 1928, con la sigla «L'Italiano Editore in Bologna», l'Almanacco di Strapaese per l'anno MCMXXIX, un libro smagliante di invenzione grafica e intellettuale.
Il primo a far ricorso all'almanacco, come a un genere speciale di comunicazione e provocazione intellettuale, era stato Soffici nel 1914, la data di pubblicazione dell'Almanacco purgativo, cui l'anno dopo aveva fatto seguito l'Almanacco della guerra (un tantino miserevole nell'argomentare le sue ragioni arti-tedesche). In quello stesso 1915 esce un cospicuo Almanacco della Voce, curato da Prezzolini e serioso alla sua maniera. A fare un almanacco che attiri e invogli il lettore ci vuole scrittura rapida, battuta tagliente, saper passare in un lampo dal serio al faceto, mescolare la parte scritta con quella grafica, mescolare e frullare assieme gli argomenti di serie A e quelli di serie B; fare una battuta su quanto di più serio e prendere sul serio ciò che è comico o irrilevante, essere un po' filosofi e un po' astrologi, lasciare il lettore in dubbio sul fatto se stai pregando o bestemmiando.
Soffici in tutto questo è bravissimo, ha il genio di quest'arte. Scrittore e pittore, sa usare tutt'e due gli ingredienti fondamentali. Ma il maestro degli almanacchi del Novecento è Maccari, che in quel genere di comunicazione ci sguazza. In ciascuno dei suoi almanacchi c'è di che dar da vivere per sempre a un battutista televisivo o cinematografico. Un almanacco lo fa a quattro mani con Longanesi e lo abbiamo citato; una sorta di almanacco, o piuttosto di "lunario", lo pubblica da


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Vallecchi nel 1928 con il titolo Il trastullo di Strapaese, anche se in questo caso sono soltanto suoi versi e legni, gli uni e gli altri deliziosi. All'almanacco vero e proprio tornerà anni più tardi, su sollecitazione di Enrico Vallecchi, con i due splendidi fascicoli dell'Almanacco dell'Antipatico pubblicati successivamente nel 1959 e nel 1960. Di fare alcuni almanacchi con quelle caratteristiche Enrico Vallecchi aveva cominciato a parlargliene fin dal 1955, Maccari non aveva detto né si ne no. A Vallecchi aveva suggerito in ogni caso di avvalersi della collaborazione di un suo compare torinese e personaggio assai speciale nella cultura italiana degli anni Cinquanta, quell'Italo Cremona che dirigeva una rivista assolutamente maccariana, "Circolare sinistra". «Caro Enrico, rifletti bene perché l'Antipatico o è antipaticissimo o non è nulla» si raccomandava Maccari. I due fascicoli dell'Antipatico scaturirono dalla collaborazione di Maccari e Cremona, che erano perfettamente complementari. E anche se nelle sue lettere a Vallecchi Maccari si dichiara deluso dalla riuscita editoriale del secondo fascicolo, e rifiuta recisamente l'idea di farne un terzo.
A raccogliere il testimonio di quel tipo di gioco intellettual-editoriale sarà poi il piccolo grande editore milanese Vanni Scheiwiller, che nello stesso 1960 affida ad Antonio Delfini, Ennio Flaiano e Gaio Fratini di che costruire un saporoso Almanacco del Pesce d'Oro.
Maccari e Soffici a parte, la Vallecchi aveva edito tra 1937 e 1940 quattro gustosi volumi dell'Almanacco dei Visacci, anch'essi perfettamente in linea con la tradizione toscana. Né la grande editoria milanese era rimasta estranea al genere. Durante gli anni tra le due guerre Valentino Bompiani, uno che in fatto di editoria e tipografia aveva imparato molto dai fiorentini, aveva licenziato anno dopo anno un Almanacco letterario, e ci sono alcuni di quegli almanacchi resi particolarmente preziosi dai giochi grafici e fotografici di Munari. Ancora nel secondo dopoguerra la Bompiani continuerà a pubblicare degli eleganti almanacchi, ciascuno dedicato a un tema monografico, Quanto alla Mondadori aveva pubblicato anch'essa, anno dopo anno, l'Almanacco dello "Specchio". Molto ricco, tanto da costituire oggi una fonte di documentazione indispensabile a capire l'arte italiana degli anni Trenta, Il vero Giotto 1932, un «almanacco degli artisti» pubblicato a Roma dalla Casa Editrice Laziale. Eccome se aveva fecondato la lezione del Soffici del 1914 (Un giudizio a parte, e chi scrive non ne ha la competenza, meriterebbe tutto ciò che Vallecchi ha edito in materia di editoria scolastica negli anni tra le due guerre, un ramo della casa editrice che nel 1921 venne affidato alla direzione di Ernesto Codignola e dov'era comunque rilevante l'influenza di Gentile e delle sue idee di riforma scolastica. Sotto la dizione «Pedagogia e filosofia», l'elenco di quei libri occupa da pagina 287 a 310 del catalogo pubblicato nel 1935. Nella sua autobiografia Vallecchi racconta risentito che un giorno in Parlamento, e mentre si stava discutendo di


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editoria scolastica, si alzò il grido "Vallecchi! Vallecchi!», come a dire che l'editore fiorentino era stato favorito e sovvenzionato dal governo quanto alla possibilità di diffondere quei libri nelle scuole e nelle università. Anche se quelle sovvenzioni ci furono, è però vero che quel ramo della casa editrice era largamente passivo. E difatti uno che di editoria se ne intendeva come pochi, il modenese Angelo Fortunato Formiggini, aveva scritto così nel suo Dizionarietto rompitascabile dov'era l'identikit di tutti gli editori italiani: «[Vallecchi] ha impegnato la camicia per giocare tutto per la grande riforma scolastica».)
Quanto al giudizio sui rapporti tra il fascismo e la Vallecchi, se è vero che durante gli anni della dittatura la casa editrice inalberò il vessillo fascista, è altrettanto vero che la Vallecchi dei secondi anni Trenta aprì le porte a tutto quello che stava minando culturalmente il consenso al fascismo. Dal libro postumo di Scipione alle poesie del cattolico Mario Luzi, dai libri dí debutto di Vittorio Sereni ai capolavori del Romano Bilenchi maturo, dall'esordio di Vasco Pratolini alle poesie di Alfonso Gatto, dai primi libri dell'inimitabile Tommaso Landolfi alla Cronistoria del 1943 di Giorgio Caproni (era il suo quarto libro), dai saggi critici di Carlo Bo a quelli di Oreste Macrì, tutto quanto di nuovo e bruciante c'è nella cultura italiana è come se fosse inesorabilmente destinato alle rotative di viale dei Mille. Non c'è libro a-fascista, non c'è romanzo dal sapore acre e che racconti una realtà non convenzionale e anzi polemica contro la cartapesta di cui era fatta la propaganda fascista, non c'è scrittura o linguaggio poetico legati a tutto ciò che di vivo si stava muovendo nella cultura europea, cui Attilio e Enrico Vallecchi abbiano detto di no.
E siamo arrivati alla seconda grande stagione della Vallecchi, a quella seconda e sontuosa sua vetrina simbolo cui avevamo accennato. La vetrina da montare con i grandi libri pubblicati negli anni a ridosso della Seconda guerra mondiale. Se c'è un episodio atto a dimostrare che la cultura italiana sotto la dittatura fascista non fu uniforme né a tinta unica, questo è il caso del catalogo Vallecchi per gli anni che vanno dalla seconda metà degli anni Trenta sino allo scoppio della guerra.
Come già era avvenuto tra 1908 e 1920, una messe eccezionale di talenti si raduna sotto il tetto vallecchiano. Per le "Giubbe Rosse" e dintorni è una seconda stagione d'oro. Alcuni di quei talenti sono fiorentini o comunque toscani di sangue, altri sono fiorentini di adozione, Landolfi il primo di tutti, o fiorentini di passaggio, come l'Eugenio Montale che dirigeva allora il Gabinetto Vieusseux ed era immerso nella fiorentinità. Nei secondi anni Trenta alla "Giubbe Rosse" ci trovi Montale e Landolfi, ma anche Pratolini e Gatto, il siciliano Elio Vittorini e il modenese Antonio Delfini, il giovane Bilenchi e Carlo Emilio Gadda, Giuseppe De Robertis e Bontempelli. Qualche volta ci passa un giornalista toscano men che trentenne, il quale sta scalando rapidissimamente i gradini della celebrità, Indro Montanelli.


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Firenze è stata una delle città d'Italia che più hanno covato il cosiddetto "fascismo di sinistra". Vivo e irrequieto era "Il Bargello", il settimanale della federazione provinciale fascista fiorentina diretto prima da Alessandro Pavolini e poi da Gioacchino Contri, cui collaborava gente come Pratolini e Gatto. I giovani intellettuali fascisti leggono gli articoli di Berto Ricci sull'"Universale" — dove si proclamava che il nemico non era Mosca bensì «Chicago, la capitale del maiale» — e amano la rude scorza di Rosai — una scorza esaltata polemicamente in un opuscoletto talmente spoglio da vedersi ma talmente vivo, il famoso Il Rosai dalla copertina azzurra, pubblicato nel 1930, cui avevano collaborato alcuni degli spiriti più irrequieti tra i giovani fascisti, da Dino Garrone a Edoardo Persico, da Berto Ricci a Bruno Rosai a Gioacchino Contri.
Ai loro occhi il cartone della retorica fascista è roba su cui sputare e da mettere sotto i piedi. Pensano di non avere nulla in comune con quei fascisti che difendono il loro conto in banca; tutto all'opposto, a loro piace ciò che di spigoloso e di "popolare" c'era nella personalità e nella poetica di Rosai, E così i collaboratori del "Bargello" e dell'"Universale" non volevano "il regime", l'alleanza con la Chiesa e con la borghesia imprenditoriale, loro avrebbero voluto il sovvertimento totale, una sorta di bolscevismo all'italiana. Sfumatura più sfumatura meno, hanno del proletariato e degli umili la stessa idea venerante che ne hanno í bolscevichi; così come ne hanno la stessa idea sprezzante del denaro e della borghesia. Di sé Ricci (morrà in Cirenaica nel 1941, combattendo contro gli inglesi) dice pubblicamente che è «un anarchico» e se ne vanta. È un giornalista e un polemista efficacissimo e in tanti, fra cui Montanelli, lo additeranno come un maestro. Buttare la camicia nera e indossare quella rossa, dopo il 1940, sarà il gesto di un attimo, per Bilenchi come per molti altri. Sarà un cambiare di casella a poche parole del loro vocabolario, non sarà affatto un cambiare l'architettura di quel vocabolario.
E difatti il Bilenchi di quarant'anni dopo, il Bilenchi degli anni Settanta e Ottanta, il Bilenchi che da direttore del quotidiano fiorentino paracomunista "Nuovo Corriere" ha vissuto in primissima persona la tragedia dell'intellettualità comunista di fronte all'orrore del "comunismo reale", racconterà la Firenze degli anni Trenta e í suoi "amici" fascisti di quel tempo come un'esperienza di vita e di sentimenti che gli appartiene profondamente, che è durata dentro di lui per sempre, che è rimasta vitale per sempre, un'esperienza che non chiede di essere rinnegata. Al momento di fare un bilancio della sua vita, gli verranno alla memoria innanzitutto gli amici "fascisti" degli anni Trenta, i Maccari e i Rosai, non i suoi "compagni" comunisti della Firenze degli anni Quaranta e Cinquanta, quando al suo quotidiano il Pci aveva messo il silenziatore un po' perché era in perdita e un po' perché sui fatti d'Ungheria Bilenchi s'era scostato dalla posizione ufficiale del Pci (di totale adesione


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all'irruzione dei carri armati sovietici). È lo stato d'animo da cui scaturisce uno dei suoi libri più belli, I silenzi di Rosai del 1971, un libro edito dalla Galleria Pananti di Firenze «per gentile concessione della casa editrice Vallecchi». È un lungo e modulatissimo racconto autobiografico che farà da inizio e nervatura del successivo e bellissimo Amici del 1976, l'unico libro di Bilenchi pubblicato da Einaudi.
Nato nel 1909 a Colle Val d'Elsa, in provincia di Siena, era anche lui un toscanaccio. Con il conterraneo Maccari si conoscevano da quando aveva otto anni, e rimarranno compari tutta la vita a cominciare dall'avventura del "Selvaggio", dove appare a puntate il primissimo libro di Bilenchi, Vita di Pisto, che le edizioni del Selvaggio pubblicano nel 1931. È lo stesso Bilenchi ad aiutarci a capire la sua formazione intellettuale e politica quando racconterà, in un'intervista rilasciata alla vigilia della morte (è morto a ottant'anni nel 1989), che la sua maestra di scuola del 1919 era una donna fascistissima la quale andava ripetendo ai suoi scolari che non c'era nessun bisogno di andare a prendere il comunismo a Mosca perché lo «si poteva benissimo fare qua da noi con idee italiane»
Per Bilenchi, come per molti suoi coetanei tra tardi anni Venti e primi anni Trenta, il fascismo era quello del programma di Sansepolcro. Una specie di socialismo all'italiana epperò politicamente efficace, perché ha il gusto del randello, dell'azione violenta, del coraggio di chi si guadagna sul campo la supremazia politica. (Nell'intervista citata Bilenchi racconta di aver visto da ragazzo una folla di migliaia di socialisti darsela a gambe di fronte a «quindici fascisti».) E difatti i due personaggi di un celebre racconto del Bilenchi degli anni Trenta, due personaggi politicamente all'opposto, dialogano così. Da una parte è un «capofabbrica» comunista, dall'altra il suo «padroncino», un acceso fascista che però stima e vuole bene al suo operaio. Il primo protesta che «i fascisti hanno bastonato e ucciso». Al che il "fascista" risponde: «Erano necessarie le bastonate. In ogni modo abbiamo avuto più morti di voi. Poi faremo del bene al popolo». E difatti il racconto si chiude con i due che si abbracciano e fanno combutta.
Quella dell'uso "necessario" del randello contrapposto alla paciosità e alla viltà di quelli della pastasciutta, è un'ideologia e una sciagurata utopia che accomuna molti "toscani", da Bilenchi a Rosai, e persino uno solitamente misurato come Prezzolini farà (purtroppo) l'elogio del randello nel suo Machiavelli del 1927. E difatti molti di loro passeranno dall'elogio del randello "nero" all'elogio del randello "rosso", di quei comunisti russi che avevano "randellato" le truppe tedesche a Stalingrado. Tutto fuorché il liberalismo e la democrazia di centro, che ai loro occhi sa di "pastasciutta».


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Dopo l'esordio del 1931 Bilenchi pubblicò altri due libri. Il primo, Cronaca dell'Italia meschina ovvero storia dei socialisti di Colle, che figura come un libro della collezione del "Bargello", glielo pubblica Vallecchi nel 1933. I racconti de Il capofabbrica, pubblicati nel 1935, portano l'intestazione editoriale dì un'altra delle riviste del fascismo irrequieto, le edizioni della genovese Circoli. Quando noi ventenni degli anni Sessanta imparavamo a memoria gli articoli del direttore di "Cinema nuovo", Guido Aristarco, un libro che lui citava continuamente a segnalare l'avvento di una nuova generazione culturale era proprio Il capofabbrica, un libro che sa di amaro dalla prima pagina all'ultima e dove tutto, i personaggi ma anche gli alberi e starei per dire i sassi, sono immersi come in un'aura di infelicità senza scampo. (Caso vuole che la mia copia de I silenzi di Rosai, comprata in una libreria antiquaria milanese, sia quella dedicata da Bilenchi ad Aristarco.)
E se la Cronaca dell'Italia meschina è un libro giovanile che Bilenchi rinnegherà, allora il suo esordio vero con Vallecchi coincide con il suo capolavoro del 1940, Conservatorio di Santa Teresa, il libro di un Bilenchi maturo, di un Bilenchi ormai perfettamente padrone del suo mondo poetico e dei suoi mezzi espressivi. Di Vallecchi Bilenchi rimase un autore cardine fino al 1958, quando pubblica in un unico volume, riveduti e corretti come si addice ai testi di uno scrittore che ha ormai la statura di un classico, i Racconti. E ancora nel 1972, quando pubblica Il bottone di Stalingrado.
Ci sono altri ingredienti che non sia il fascismo di sinistra, nella fermentazione editoriale della Vallecchi degli anni a ridosso della Seconda guerra mondiale e immediatamente successivi. A cominciare dall'arruolamento della nuova generazione di poeti italiani, quelli che stanno succedendo alla generazione degli Ungaretti e dei Montale. Da Sereni a Luzi, da Gatto a Caproni, saranno tutti se non specificamente degli autori Vallecchi, comunque degli autori contaminati dalla fiorentinità.
Con l'eccezione di Gatto sono tutti poeti che nel 1940 hanno meno di trent'anni. Mario Luzi, che era nato a Firenze nel 1914, funge da figura cardine dell'ermetismo fiorentino. Pubblica da Vallecchi il suo secondo libro di poesie, l'Avvento notturno del 1940, e più tardi, nel 1947, il Quaderno gotico. Gatto, che era nato a Salerno nel 1908, a Firenze c'era andato a vivere nei secondi anni Trenta e a Firenze, il 1° agosto del 1938, fonda assieme a Pratolini la rivista quindicinale "Campo dí Marte", una rivista che durerà un anno e che passava tutta per le mani del direttore editoriale Enrico Vallecchi, uno che di questi giovani poeti è molto più che un editore: è un sodale e un consulente. Quel che Attilio Vallecchi era stato per la generazione dei Papini e dei Soffici, lui lo sarà per la generazione dei Pratolini e dei Luigi Bartolini.


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Contagiato anche lui dall'ermetismo, Sereni era nato in provincia di Varese nel 1913. Vallecchì gli pubblica nel 1942 la seconda edizione (col titolo Poesie) del celebre Frontiera che era stato pubblicato dalle edizioni di Corrente l'anno precedente, e poi nel 1947 il secondo suo libro, Diario d'Algeria. Caproni era nato a Livorno nel 1912, e aveva vissuto a Genova dal 1922 al 1938. Il suo primo libro pubblicato da Vallecchi nel 1943, Cronistoria, è anche il primo deì suoi libri che abbia una sorta di editore ufficiale; i primi tre erano libri editorialmente underground e difatti sono oggi difficilissimi da trovare.
La parola chiave per questa generazione di poeti è la parola "ermetismo". Se non la parola il concetto ne è stato coniato in terra fiorentina. A dare un fondamento teorico e morale a quel concetto è stato Carlo Bo (era nato nel 1911), con un saggio che ha per titolo Letteratura e vita e che apparve nel 1938 su un numero del "Frontespizio", la rivista di Piero Bargellini, per poi subito essere riedito negli Otto studi, altro piccolo monumento dell'editoria vallecchiana, uno dei libri di critica letteraria più importanti del secolo, «La poesia — scrive Bo — è quello che non sappiamo: il commercio col cielo, ha detto Mallarmé: né noi né il cielo». Far poesia, cercare le parole della poesia è un nascondere e sottacere in tempi in cui la realtà manifesta è divenuta così ripugnante; è la ricerca di un significato più insinuante e musicale che non sia il significato primo ed evidente della cosa detta, qualcosa che stia "dietro" o "sotto" e di cui il lettore si possa appropriare solo con suo sforzo e partecipazione, è il bisogno di "un'integrità dell'uomo" da difendere senza riguardi. Non è la chiarezza esteriore quella che offre "la possibilità di vita". La letteratura deve tendere alla vita, è la vita: «È la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita. E si sa a che cosa alluda, non a questo mostro che ci soffoca di più giorno per giorno, a questa enorme fiera di vanità in cui per diverso grado cadiamo tutti con le debolezze, le colpe, i peccati e soprattutto con la nostra spaventosa disponibilità alle omissioni».
II "Frontespizio", "Il Bargello", "Campo di Marte", l'"Universale", e "Solaria" naturalmente, e a non citare il "Selvaggio" che era nato in Toscana ma alla cui redazione Maccari stava facendo fare il giro d'Italia. Tutte riviste fiorentine, nella gran parte riviste edite da Vallecchi. La dittatura fiorentina in fatto di riviste letterarie, una dittatura avviata dal "Leonardo" di inizio secolo, continuava alle soglie degli anni Quaranta. Va bene che il libro di Augusto Hermet è un libro vallecchiano, uscito non a caso al culmine di quella dittatura, il 1941, ma la copertina della sua La ventura delle riviste non racconta una bugia nell'includere sette riviste fiorentine sulle otto che ne sono elencate in tutto (l'ottava è "La Ronda", la rivista romana animata da Cardarelli nel 1919). Anch'essa rivista vallecchiana per antonomasia, "Il Frontespizio" era nato nell'agosto del 1929, e


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voleva essere un'arma di combattimento culturale degli intellettuali cattolici, Del gruppo fondatore facevano parte Giovanni Papini, Domenico Giuliotti, Augusto Hermet, Nicola Lisi. Il suo direttore e animatore, Piero Bargellìni, un poligrafo che passava agevolmente dai saggi di letteratura a quelli di architettura, era anche lui un autore vallecchiano. La loro era una rivista dí quelle che predicavano "il ritorno all'ordine", ma pungente e tenace oltre che graficamente molto elegante, tanto che ne ebbe un premio alla Triennale di Milano del 1933. Nel momento di sua maggiore risonanza, il "Frontespizio" toccò i sedicimila abbonati. E seppure lo stesso Bo non amasse la qualificazione di «intellettuali cattolici», è vero che intellettuali cattolici come Bo e Luzí la fanno da protagonisti nell'ambito fiorentino in quel torno di anni, e senza dire delle vendite astronomiche dei libri del Papini convertitosi al cattolicesimo.
L'altro grande scrittore debuttante della Vallecchi di quegli anni sarà Pratolini, il cui primo libro, Il tappeto verde, appare nel 1941. Anche lui a lungo un autore della Vallecchi, che gli pubblica un libro dopo l'altro, e sono i libri più belli di Pratolini, quelli dove meglio rifulge la sua vena sentimental-realistica, da Le amiche a Cronache di poveri amanti. Sino al 1955, l'anno di Metello, il romanzo che spacca in due la cultura di sinistra, da una parte quelli che lo osannano e dall'altra quelli che lo denigrano come retorico e populista, a cominciare dalla memorabile stroncatura che su "Società" ne fece Carlo Muscetta.
Ma con Pratolini e la rovente discussione sulla sua poetica, se fosse un passo avanti o un passo indietro rispetto al neorealismo dell'immediato dopoguerra, siamo ormai entrati a piedi giunti negli anni Cinquanta, Ed è una nuova storia, un'altra situazione culturale, una nuova Vallecchi. A cominciare dal fatto che il suo fondatore è morto, e la casa editrice è adesso nelle mani dei due figli, Enrico e Piero, e per quanto già dai secondi anni Trenta il primogenito Enrico fosse stato l'interlocutore naturale dei letterati che pubblicavano da Vallecchi.
I libri Vallecchi cominciano adesso a uscire abitualmente con una sovraccoperta figurata a colori. Vallecchi padre non le amava, quanto alla copertina preferiva un impianto sobrio ed essenziale. Le illustrazioni, semmai, andavano fatte sciamare tra le pagine interne. Rari sono i libri Vallecchi degli anni Venti e Trenta che abbiano una copertina figurata, ad esempio Il servitore di piazza di Franci. Così come Vallecchi padre non amava i libri sontuosi o cosiddetti "d'artista", libri da vendere a un prezzo inevitabilmente alto, quelli in cui è decisivo l'apporto grafico delle illustrazioni stampate per via manuale e non tipografica (tra le poche eccezioni l'Elegia dell'Ambra di Soffici, e non è un caso che sia Soffici l'autore che usufruisce di un'eccezione). E difatti altissimi sono i lai di un Luigi Bartolini nelle sue lettere ai Vallecchi (la sua vita era del resto un continuo lamentarsi) affinché l'edizione


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Vallecchi del 1930 di Passeggiata con la ragazza non fosse una brossurina qualsiasi con delle acqueforti stampate tipograficamente alla men peggio, ma avesse una tiratura di testa con le illustrazioni edite come Dio comanda.
Nelle edizioni Vallecchi le sovraccoperte figurate cominciano ad apparire all'inizio degli anni Quaranta. Il più delle volte portavano illustrazioni i cui disegni originali erano di proprietà della famiglia. Tanto per fare un esempio relativo a un libro importante, il Mio cugino Andrea dí Bilenchi, pubblicato nel 1942, aveva una sovraccoperta illustrata con un disegno di Nils Martellucci, il cui originale faceva sicuramente parte della collezione Vallecchi. Ancora due anni prima, il Conservatorio di Santa Teresa era uscito rigorosamente privo di sovraccoperta. Rigorosamente privo dì sovraccoperta è il Tappeto verde pratoliniano del 1941. Beninteso, la mancanza della sovraccoperta non è affatto un difetto di visività e accuratezza tipografica. La copertina del Tappeto verde, come attestano le lettere che si scambiavano al riguardo Pratolini e Enrico Vallecchi, venne dosata attentamente in ogni sua sfumatura e combinazione di colore. Pratolini aveva raccomandato che non si usasse il verde, per non ricalcare banalmente il titolo. Vallecchi impresse il titolo in un color viola che rifulgeva sul fondo di un rosa acceso, e mentre andavano in nero i nomi dell'autore e dell'editore. Un risultato di grande levità ed eleganza. Il libro, che usci quando Pratolini s'era appena sposato, venne messo in vendita a lire otto.
Il secondo dopoguerra, dai primi anni Cinquanta in poi, è un tempo che diventa difficile per i Vallecchi. Il baricentro culturale del Paese s'è spostato intanto a nord. C'è che le case editrici del nord sono meglio piazzate, meglio organizzate, forti di quei loro segmenti di letteratura popolare o di largo consumo che portano a casa soldi e i soldi attraggono gli scrittori migliori. Un Pratolini, tanto per fare un esempio, alla fine degli anni Cinquanta passerà armi e bagagli alla Mondadori, una ricca casa editrice che poteva pagare cospicui diritti d'autore. E poi c'è che il clima politico s'è completamente arrovesciato rispetto agli anni aurei della Vallecchi.
Allo stesso modo di come gli autori che avevano vissuto l'esperienza della guerra occupavano la prima fila intellettuale negli anni Venti, ad occupare la prima fila sono adesso gli scrittori legati alla sinistra. Scrittori che raccontano magari la saga della Resistenza e che pubblicano per Einaudi, il giovanissimo Italo Calvino come Cesare Pavese come Beppe Fenoglío, oppure lo stesso Antonio Gramsci, le cui Lettere dal carcere pubblicate nel 1947 faranno sensazione.
Nello spazio di pochi anni la Vallecchi è come spinta spalle al muro, costretta a un ruolo che va facendosi marginale. Adesso rischia di essere una casa editrice "fiorentina" nel senso riduttivo del termine. E anche se continua a vantare libri di scrittori di primissimo piano, un Landolfi su tutti ma


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anche Luigi Bartolini, Curzio Malaparte, Carlo Emilio Gadda. Ma non è più la supremazia degli anni Venti e Trenta. È come se un giocatore di calcio, seppure ancora ammirato e temuto, fosse però uscito dal giro della nazionale. E quanto a Gadda, c'è molta fiorentinità ma poca Vallecchi nella sua vicenda editoriale. Tutti i suoi libri dell'anteguerra erano stati pubblicati a Firenze, ma nessuno dalla Vallecchi. Il solo titolo vallecchiano dell'«ingegnere de letteratura' è Novelle dal ducato in fiamme del 1953, e anche se i libri editi da Solaria e da Parenti nell'anteguerra sarà poi Vallecchi a distribuirli nel secondo dopoguerra.
E comunque ci sono scrittori come Landolfi (era nato in provincia di Frosinone nel 1908) che sono come sposati a vita alla Vallecchi; come se quel timbro editoriale fosse impresso nelle loro carni sino a diventare una seconda pelle. Innanzitutto perché dei quindici o venti libri di Landolfi, solo due o tre non sono editi dalla Vallecchi. E poi perché è difficile immaginare i suol romanzi e i suoi racconti se non nelle brossurine e con le sovraccoperte della Vallecchi. Quando il gran capo della divisione libri della Rizzoli negli anni Settanta, Mario Spagnol, uno che amava alla follia Landolfi, comprerà i diritti di Landolfi dalla Vallecchi e cercherà di dare una spinta alle vendite dei suoi libri (vendite sempre state magre), i titoli di Landolfi che portavano la dicitura editoriale della Rizzolì venderanno meno dei loro corrispettivi che indossavano la casacca Vallecchi. Segno che per una parte dei lettori Landolfi non poteva essere privato da quella casacca. (Il tentativo di accelerare vendite e diffusione dei libri di Landolfi lo sta facendo adesso la casa editrice milanese Adelphi, con risultati soddisfacenti. Né è un caso che a puntare su Landolfi sia la più raffinata delle odierne case editrici italiane.)
In occasione della pubblicazione del Catalogo Vallecchi datato 1954, il suo identikit è tracciato così: «Landolfi è una specie di fantasma. Appare, scompare. Dì lui si sa che è un essere bizzarro (quasi quanto quelli che popolano i suoi racconti), un giocatore formidabile e che odia farsi fotografare». Pochi autori combaciano psicologicamente e antropologicamente con la loro casa editrice come Landolfi, uno che quando gli proposero di partecipare a un premio letterario chiese al suo editore una sorta di indennità, nell'ipotesi in cui non avesse vinto ma anche in quella in cui avesse vinto. Difficile immaginare un tratto di elitismo più "vallecchiano" di questo, un tratto più degno di una casa editrice che per decenni s'era fatta vanto di pubblicare libri che di rado toccavano le duemila copie vendute. Solo che l'industria culturale stava cominciando a imporre le sue regole, e per l'elitismo sarebbero sopravvenuti anni amari. E tanto più per un elitismo che non aveva più il sostegno del mood politico dominante fra gli intellettuali, quel mood che negli anni Cinquanta e Sessanta faceva la forza della casa editrice Einaudi.


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Nel 1955 le difficoltà economiche della casa editrice si sono fatte pesanti. Alla famiglia Vallecchi si affianca, a fungere da comproprietaria, la Società Montecatini. Nel 1963 Enrico e Piero Vallecchi verranno estromessi dalla casa editrice. Per dieci anni, dal 1962 al 1972, la Vallecchi è diretta da Geno Pampaloni, un critico letterario fiorentino di grandissimo prestigio, il quale agisce per conto della proprietà Montecatini e poi Montedison. Pampaloni era un intellettuale della covata olivettiana del secondo dopoguerra, quei liberali attenti ai problemi della democrazia moderna e che non facevano concessioni alla sinistra. Da critico letterario del "Giornale", tra la metà degli anni Settanta e í primissimi Novanta, sarà una delle penne più autorevoli del giornalismo intellettuale italiano. Splendido è quel suo volume del 1984, Fedele alle amicizie, una sequela raffinata di interventi critici e pagine autobiografiche. Nessuno meglio di lui poteva conservare alla Vallecchi il suo prestigio, il suo lignaggio.
Dopo alcuni passaggi di proprietà, e talvolta quella proprietà finirà in mani sciagurate, nel 1983 l'ottantenne Enrico Vallecchi riscatta le proprie quote del pacchetto azionario. «Ho voluto rinnovare la sfida» dirà agli amici. Si chiameranno a un certo punto Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Enrico muore nel 1990. Quella che è stata forse la più significativa casa editrice del Novecento italiano ha concluso il suo percorso. E anche se di libri con il marchio Vallecchi continueranno a uscirne ancora negli anni Novanta, talvolta ristampe di libri che avevano avuto un grande successo in passato, libri di Soffici come di Lorenzo Viani, di Malaparte come di Papini, talvolta libri vitali e polemici, come il pamphlet di Marcello Veneziani del 1995, Sinistra e Destra, in cui il noto intellettuale della nuova destra replicava a un precedente pamphlet di Norberto Bobbio piuttosto pigro e prevedibile nell'identificare i connotati rispettivamente della destra" e della "sinistra". Non che la Vallecchi degli anni Novanta fosse divenuta la casa editrice portavoce della "destra": è del 1994 la pubblicazione del libro di uno dei guru dell'estrema sinistra americana, Il potere dei media di Noam Chomsky. Ma siamo agli sgoccioli di una storia durata quasi quanto il secolo. La luce si spegne, le rotative tacciono. Il Catalogo Vallecchi del 1995, e credo sia l'ultimo catalogo mai pubblicato dalla casa editrice, offriva titoli che occupavano una trentina di paginette, contro le centinaia di pagine dei cataloghi dei momenti aurei.
E anche se noi, che conserviamo i libri Vallecchi negli scaffali i più amati della nostra biblioteca, ci auguriamo che quel percorso in qualche modo riparta. Questo libro ne è un'avvisaglia e una speranza


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